L’autoritarismo non ci aiuterà a sconfiggere la pandemia

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“Mia madre fa il medico e l’altro giorno è uscita per andare al lavoro e dal balcone qualcuno le ha urlato che era una criminale perché si deve stare a casa”. “Sono stata minacciata di denuncia dai vicini perché ho portato fuori il cane”. “Ho paura di essere insultato quando vado a fare la spesa”. Frasi del genere si leggono spesso sui social in questi giorni, accompagnati da: “Bisognerebbe sparare a vista a chi esce di casa”, “Dovrebbe esserci l’esercito che fa controlli a campione negli appartamenti” o “Chi è tornato al Sud con i treni merita la morte”. Questo clima si accompagna a un nuovo genere giornalistico, nato nel giro di una settimana, quello dei cronisti che si scoprono giustizieri della notte: guardate com’è piena la metropolitana, guardate queste persone che fanno la fila al supermercato, guardate questa coppia che si tiene per mano e non rispetta la distanza di sicurezza.

E così, mentre rievochiamo la necessaria rilettura de I promessi sposi, non ci siamo accorti di essere diventati tutti la vecchia che urlava a Renzo “Dagli all’untore!”. Denunciamo vicini di casa, telefoniamo alla polizia, scriviamo strali su Facebook contro chi cammina per strada. A Salerno una farmacista di rientro dal lavoro si è vista tirare addosso un secchio d’acqua da un balcone. Stiamo scivolando in un regime di psicopolizia orwelliana: spiamo il nostro dirimpettaio e ci allarmiamo non solo per il “reato” commesso – uscire di casa – ma anche per l’eventualità, la progettualità, l’intenzione di quel “reato”. Chi anche solo esprime la voglia di farsi un giro riceverà una sequela di insulti: “No, si deve stare a casa!”, anzi, in caps lock: “STATE A CASA”, come scritto a caratteri cubitali sul Pirellone in quello che sembra un brutto remake di Essi vivono.

Se siamo arrivati a questo punto è perché la necessità di rimanere nelle nostre abitazioni per limitare il contagio è stata veicolata in modo sbagliato e aggressivo, colpevolizzando i cittadini per un’epidemia la cui diffusione non è certo colpa del singolo individuo. I motivi sono tanti: incapacità di usare gli strumenti di comunicazione istituzionale (basti pensare al panico che ha scatenato la diffusione della bozza del primo Dpcm), allarmismo mediatico, mancato coordinamento tra le varie forze politiche e una bella dose di fascismo eterno all’italiana, per usare l’espressione di Umberto Eco.

Al tono fermo ma pacato e ai rassicuranti abbracci di Conte, che nel frattempo è diventato Senpai Conte, si è contrapposta la confusa e litigiosa comunicazione della regione Lombardia, la regione più colpita d’Italia, che ha deciso sin dal giorno zero di insistere sulla responsabilità dei cittadini. “Vi controlliamo anche rispetto alle celle telefoniche”, ha detto sogghignando l’assessore del welfare lombardo Giulio Gallera in una conferenza stampa. “Per adesso ve lo diciamo con la consueta tranquillità ma, se si dovesse andare avanti, chiederemo al Governo anche le maniere forti“, ha aggiunto il governatore Fontana. “Fra poco bisognerà cambiare tono perché se non la capite con le buone dovremo essere un poco più aggressivi”. Il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca, intanto, invoca i carabinieri “con il lanciafiamme” contro chi organizza feste di laurea.

Il tono è tutt’altro che buono: uscire di casa muniti di autocertificazione, con la sorveglianza delle celle telefoniche e con la prospettiva di incontrare un agente di polizia che mi chiede dove vado e cosa faccio, non corrisponde esattamente alla mia idea di bene. Certo, si deve fare e quindi lo si fa, perché in questo momento è necessario e non perché si ha paura di prendere una multa. Ma descrivere la situazione come una sorta di grazia o concessione in alternativa alle “maniere forti” prospettate da Fontana non è affatto rassicurante. Uno stravolgimento tale delle vite degli italiani deciso da un giorno all’altro dopo settimane di virologi che litigavano in tv, tra chi ci diceva che il coronavirus è solo un’influenza e il “Moriremo tutti”, è normale che abbia bisogno di un po’ di tempo per essere assimilato. La cosa paradossale è che questa restrizione sembra aver risvegliato l’antico fascino degli italiani per l’autoritarismo, nonostante l’evidente incapacità di molti di rispettare i divieti previsti dai vari Dpcm, che accampano scuse per uscire ma poi si indignano per chi va a fare la spesa per necessità. D’altronde solo pochi mesi fa il Rapporto sulla situazione sociale del Paese del Censis evidenziava come un italiano su due avesse nostalgia per l’uomo forte al governo.

E qualcuno di questo clima se ne sta approfittando: il comandante Alfa, carabiniere in pensione e fondatore dei Gis, il Gruppo di intervento speciale, ha scritto un post su Facebook dai toni molto duri – prendendosela anche con Carola Rackete e le Sardine – in cui chiede “dove si nascondono i politici” e in cui invita la popolazione “a combattere”. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha condannato le parole del comandante Alfa, definendole “gravissime e inaudite”. Il comandante generale dei Carabinieri Giovanni Nistri ha dichiarato che “l’Arma valuta la possibilità di adottare provvedimenti”. Proclami di questo genere sembrerebbero sintomo di una volontà di autoritarismo diffusa. Ed è questo che maggiormente deve preoccupare: fin quando è l’autorità a propinare misure e atteggiamenti impregiati di autoritarsimo si può sempre sperare che questo venga arginato dalla società; ma quando è la società stessa a chiedere a gran voce di sposare la prospettiva autoritaria, allora sì che dobbiamo cominciare a preoccuparci.

Perché oggi autoritarismo significa delegare ai cittadini il compito di sorvegliarsi a vicenda, a essere i poliziotti di se stessi, come invita anche il comandante. È un po’ quello che accade con la retorica del decoro, che sfocia nelle ronde cittadine contro rom e migranti e nel giustizialismo fai da te della destra che vuole sostituirsi agli “sbirri” e alla legge, come dimostrano i casi dei consiglieri di Fratelli d’Italia che “raccolgono le segnalazioni dei cittadini” e “vanno a controllare” le case popolari, o di Salvini col citofono, o di Forza Nuova che si sente in diritto di entrare nelle abitazioni private dei rom a Casal Bruciato. Questo clima da guardia e ladri è stato senz’altro aggravato dalla confusione delle istituzioni, con il governo che dice una cosa, la protezione civile un’altra e le regioni che fanno di testa loro. La criminalizzazione della gente comune – e conseguentemente la spinta a segnalare i trasgressori – è sempre stata, nella storia, uno strumento repressivo usato nelle situazioni di difficoltà o di crisi per riaffermare il potere dell’autorità, in particolare per apparire preparata e capace di gestire la situazione. È la prima volta che ci troviamo di fronte a un’epidemia di tale portata ma questo non giustifica l’invocazione di totalitarismi e l’intervento militare.

Varrebbe la pena chiedersi perché, in un tempo di appelli alla responsabilità individuale, siamo arrivati a pensare più a quella del nostro vicino di casa che alla nostra. Ci sembra più comodo individuare un colpevole esterno, che siano i cinesi dell’inizio dell’epidemia, poi gli immigrati per i quali era necessario “chiudere i porti” e ora chiunque possiamo individuare da un balcone. Sarebbe meglio ricordare che non siamo noi a uccidere le persone, ma è il virus, e che quello che possiamo fare è limitarne la diffusione e assumerci la responsabilità – quella sì – di seguire le direttive e fare al meglio il nostro dovere. Ma questo è ben diverso dal trasformarsi in delatori, che escono di casa solo per immortalare vere o presunte folle (quindi, di fatto, unendoci a chi vìola deliberatamente le norme), solo perché ci fa sentire importanti aver stanato il figlio quindicenne della vicina che va a trovare la ragazza.

Proprio Eco, parlando del fascismo eterno o Ur-Fascismo, diceva che una delle sue caratteristiche fondamentali è l’illusione che tutti possano diventare degli eroi. Si chiama “elitismo di massa” la convinzione che tutti facciamo parte di una sorta di popolo eletto e siamo superiori a chi ci è gerarchicamente inferiore nella scala sociale, anche se magari siamo noi quelli all’ultimo gradino. Troveremo sempre qualcuno su cui scaricare il nostro senso di superiorità. Si sarà sentito un eroe l’uomo che a Fondi, in provincia di Roma, ha denunciato per aver violato il decreto dei senzatetto che avevano trovato riparo in un ospedale. Peccato che si sia poi scoperto che fosse lui quello in violazione, in quanto domiciliato in un altro comune, mentre le persone denunciate erano state autorizzate dall’ospedale a stare lì. “In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un eroe. In ogni mitologia l’eroe è un essere eccezionale, ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo è la norma”, scrive Eco.

Non siamo ancora arrivati al premio in denaro per i collaboratori che segnalano i trasgressori, come avveniva durante il fascismo per chi denunciava ebrei e partigiani, ma sembra che poco ci manchi. La ricompensa per questi nuovi delatori ovviamente è la gloria sui social: la foga di far vedere quanto la gente faccia schifo e invece quanto siamo bravi noi spesso ci fa anche commettere degli errori, come il blastatore Burioni che pubblica una foto degli anni Ottanta per denunciare la folla sul Lungotevere, Selvaggia Lucarelli che posta foto di bus affollati senza contestualizzazione, o appunto quei geni che si uniscono agli assembramenti per dimostrare al mondo che ci sono assembramenti. E così arrivano le mail alle redazioni dei giornali, che volentieri fanno da cassa di risonanza, facendosi complici della facile indignazione: per favore, pubblicatemi, ho le prove, guardate qui, vi mando tutto!

Siamo in una situazione eccezionale e mai vista nella storia della Repubblica. La pressione psicologica che stiamo subendo, da chi è in prima linea a lavorare negli ospedali a chi “si limita” a rispettare l’isolamento, è qualcosa di nuovo per tutti. Ma questo non significa che sia un via libera per dar sfogo al lato peggiore di noi stessi e del nostro Paese, invocando l’unità nazionale ma poi comportandoci da giustizieri. Ognuno dovrebbe semplicemente limitarsi alla propria responsabilità individuale, magari dando il buon esempio restando a casa, anziché uscire per poter postare su Facebook il video che incastra il vicino.

*Jennifer Guerra in Osservatorio Repressione

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